Insegnare
[in-se-gnà-re (io in-sé-gno)]
SIGN Esporre, spiegare qualcosa in modo che venga appreso
dal latino tardo [insignare] 'incidere, imprimere dei segni', (sottinteso, nella mente), composto da [in-] e [signare].
Non sempre siamo consapevoli della grazia poetica che ispira la formazione di certe parole, anche comuni. Il verbo insegnare è un esempio bellissimo di tale grazia.
Sappiamo che cosa significa: spiegare qualcosa, fornendo informazioni (come quando mi insegni un alfabeto) o mostrando con l'esempio (come quando mi insegni ad attaccare un bottone), al fine di fare apprendere una conoscenza o una capacità. Il respiro di quest'azione è molto vasto, spazia dalle nozioni più puntuali alle più generali condotte di vita, abbraccia l'esistenza umana dalla culla alla bara (umana e non solo), ma il suo cuore è invariabile - ed è questo cuore che l'etimo ci dipinge.
Propriamente l'insegnare nasce nell'immagine di incidere, imprimere dei segni nella mente. Un'immagine pulita ed eloquente, quasi primitiva, che (altra meraviglia) emerge nel latino medievale dei glossatori, nel fervore delle università, nell'innesco del primo sistematico recupero italiano ed europeo dell'arte e della tecnica dell'insegnamento.
(Sul fatto che all'insegnare debba corrispondere un imparare nulla da dire? Si potrebbero richiamare molti luoghi comuni; ma basti affermare che l'insegnare si svolge nel gioco cooperativo della formazione. Mi puoi insegnare, non mi puoi imparare.)
- «Sei tu l'insegnantessa?» -
Quando tanti anni fa ho iniziato ad insegnare, due cose mi hanno stupita in particolare.
La prima è come uno studente sano di mente possa pensare di non essere visto mentre copia o suggerisce ai compagni. (Vi lasciamo fare, miei cari, perché apprezziamo la cooperazione e perché avete comunque buone possibilità di sbagliare ugualmente).
La seconda ragione di stupore è stata constatare quanto sia breve il passo fra l'imparare e l'insegnare. Ci vogliono anni prima di sentirsi pronti, ma un giorno, in maniera più o meno traumatica e più o meno improvvisa, si fa il giro della cattedra, e quello che prima era un luogo per formarsi diventa un luogo di lavoro.
Ho sempre pensato che ci siano due grosse categorie di lavori. C’è il mestiere che “si fa” e il mestiere che “si è”. La differenza sta nel fatto che dopo aver timbrato il cartellino, uno continui a pensare a quello che fa durante il giorno. Insegnare è sicuramente un mestiere che si è. Da quando ho iniziato a insegnare italiano per stranieri non riesco più ad ascoltare una canzone in italiano senza cercarne lo spunto grammaticale principale, ogni straniero che ha la sventura di parlare con me si trova inconsapevolmente a fare un test di livello della produzione orale e in più di un’occasione ho lasciato senza parole impiegati delle poste e commessi dopo che mi ero lasciata sfuggire la correzione di un congiuntivo. Dico questo, non per svelarvi che sono un’insopportabile maestrina, ma per farvi riflettere sul significato profondo di questa azione, che fatta per lavoro diventa un’abitudine, un modo di essere. Così, quando prima di entrare in classe, uno studente rispettosamente si affaccia e mi chiede: “Sei tu l’insegnantessa?”, l’unica risposta possibile suona come se mi stessi presentando: “Sì, sono io, piacere”.
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